Casa di passaggio

- “Beh però si sapeva fin dall’inizio che sarebbe stata una cosa provvisoria...no?” -

Certo che lo sapevo. Una bella sera del novembre 2017 sono uscita di casa dopo aver scelto con enorme sofferenza di andare a vivere in una realtà di vita comunitaria, esperienze di questo tipo qualcuno le chiama anche “case di passaggio”: case cioè in cui giovani adulti come me trascorrono un tempo limitato nell’attesa di nuove strade e nuovi percorsi di vita.

Casa di passaggio. Certo che lo sapevo, fa parte del pacchetto: ognuno sa quando entra ma non sa quando uscirà. Con alcune ragazze ho convissuto per soli 3 mesi, con altre 6, con altre anche 2 anni.

Una scadenza. Certo che lo sapevo, ma ciò che ho scoperto vivendo concretamente e quotidianamente la vita insieme è che questo non lo posso chiamare né passaggio né provvisorietà né limite, anonimo tempo che scorre tra le due grandi sicurezze della famiglia di origine e del futuro che si sceglierà. Marc Augè ha coniato il termine “nonluoghi” per indicare quegli spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, spinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare una qualche operazione quotidiana o di attivare un cambiamento (aeroporti, centri commerciali, sale d’aspetto, ascensori).

Chissà allora se chi le chiama case di passaggio pensa anche che possa esistere il “nontempo”: un tempo in cui le persone vivono senza entrare in relazione profonda fra loro, limitandosi e contenendosi, risparmiandosi e scegliendo di non contagiare il cuore con la precarietà.

La verità è che non ci sono mai riuscita. E questo non lo sapevo. 

Non lo sapevo che la quotidianità potesse spalancare così l’animo delle persone accanto a me, tanto che i confini tra me e loro diventassero così labili da essere praticamente invisibili. Non avrei mai immaginato che ognuna delle persone con cui avrei abitato avrebbe lasciato in me un segno indelebile, un tratto caratteristico, un’impronta concreta sul terreno dei miei pensieri e delle mie emozioni, cicatrici di abbracci prolungati, di carezze fluttuanti che si depositano negli interstizi degli impegni che si susseguono e del tempo che scorre, sguardi in grado di scavare fin dentro le più buie caverne dell’intimo, gesti di piccola, silenziosissima ma preziosa cura che fanno credere di essere così profondamente amati da non aver più bisogno di nient’altro, inspiegabili connessioni, miracolose sintonizzazioni che non nascono dal ragionevole ma dal naturale e dallo spirituale.

Eccolo qui il cortocircuito: alberi di relazioni stabili, fondamentali, vitali che cominciano a mettere radici in un terreno che per sua natura è provvisorio. Nulla è solo momentaneo ma tutto rimane scolpito: non c’è passaggio che non abbia lasciato un segno. E di questo ho la certezza: che io sono il frutto degli amori che mi hanno amato proprio durante i loro passaggi lasciando il segno.

Non sono tanto brava con le piante e questo un po’ mi spaventa, necessitano di cure, attenzioni, bisogna capire i loro bisogni senza parlarsi. Però eccomi qui, con il grande desiderio, ancora una volta, di trapiantare questo nuovo albero dal prato del passaggio al bosco del per sempre.

Grazie passaggio che mi regali ogni giorno il desiderio dell’infinito. Grazie a tutti voi, passaggi-segni che in me siete, abitate qui, sempre.

Commenti

  1. Proprio vero... case di passaggio che però restano nel cuore, mettono radici e tutt'ora a distanza di anni continuano a portare frutto, almeno per me è così! :) <3

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