Un bel tipo


Assaggio di un personaggio che, nonostante la paura, la solitudine, la reclusione, l’ansia, il buio e lo sconforto, ha regalato al mondo squarci unici di Bellezza e di Speranza.
Nome: prima Giovanni e poi Francesco (c’era stata un po’ di indecisione)
Anno di nascita e di morte: 1181 o 1182 – 1226
Luogo di nascita: Assisi
Genitori: Pietro di Bernardone e Madonna Pica
Professione: cavaliere, frate, poeta e santo

      Voglio parlarvi di due momenti straordinari della vita di Francesco avvenuti nel corso del 1224, a due anni dalla sua morte. Quegli ultimi anni costituiscono per il santo di Assisi il tempo della grande sofferenza e, al contempo, della perfetta letizia, del dolore insopportabile e della benedizione incondizionata, della cecità e della lode cosmica al creato.

Intorno al 14 settembre 1224, dopo quaranta giorni di digiuno e preghiere, presso il monte della Verna, Francesco riceve le stimmate, cioè i segni corporali della passione di Gesù. Tommaso da Celano, nella sua biografia del santo dal titolo “Vita prima di San Francesco d’Assisi”, sostiene che «era meraviglioso scorgere al centro delle mani e dei piedi non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal color del ferro e il costato imporporato dal sangue». 
Nonostante le dolorose ferite nel proprio corpo, al termine della visione di Gesù crocifisso, Francesco è a tal punto colmo di felicità e ardore da decidere di comporre una preghiera costruita interamente sulla ripetizione ad inizio di verso dell’espressione “Tu sei”. Con quel “Tu sei” desidera distogliere completamente il proprio sguardo da se stesso per rivolgerlo verso l’alto e verso l’Altro. E allora ringrazia, benedice, esalta e contempla quel sommo bene che lo ha voluto somigliante a Lui in tutto e per tutto. Queste sono le parole attraverso cui Francesco si rivolge direttamente a Dio Padre semplicemente per... riempirLo di complimenti.

Tu sei santo, Signore solo Dio,
che compi meraviglie.
Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei Altissimo,
Tu sei onnipotente, Tu, Padre santo,
re del cielo e della terra.
Tu sei trino e uno, Signore Dio degli dei,
Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene,
Signore Dio vivo e vero.
Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza,
Tu sei umiltà, Tu sei pazienza,
Tu sei bellezza, Tu sei sicurezza, Tu sei quiete,
Tu sei gaudio e letizia, Tu sei la nostra speranza,
Tu sei giustizia e temperanza,
Tu sei tutto, ricchezza nostra a sufficienza.
Tu sei bellezza, Tu sei mansuetudine.
Tu sei protettore,
Tu sei custode e difensore,
Tu sei fortezza, Tu sei rifugio.
Tu sei la nostra speranza,
Tu sei la nostra fede,
Tu sei la nostra carità,
Tu sei tutta la nostra dolcezza,
Tu sei la nostra vita eterna,
grande e ammirabile Signore,
Dio onnipotente,
misericordioso Salvatore.
Amen.
 (preghiera tratta dalle Fonti Francescane 261)


          Ma non è finita qui. Al suo ritorno dal monte della Verna, Francesco crea il suo capolavoro, il più bell’inno alla vita che sia mai stato scritto nonché la pagina più antica di tutta la letteratura italiana. In quell’inverno, tra il 1224 e il 1225, il frate si trova presso il convento di San Damiano ad Assisi, cioè la dimora di Santa Chiara e delle altre giovani che avevano fatto proprio l’ideale francescano. Francesco è molto malato. Tommaso da Celano racconta che il suo stomaco aveva subito la rottura di alcuni vasi sanguigni e che soffriva di una dolorosa disfunzione del fegato. Per questi motivi aveva il ventre, le gambe e i piedi gonfi e gli era quasi impossibile ritenere qualsiasi cibo. A ciò si aggiunga che il povero Francesco è ormai divenuto quasi completamente cieco a causa di un’infezione agli occhi che lo rende insofferente alla luce del sole, per cui le cose gli appaiono quasi del tutto avvolte nelle tenebre.
È straordinario e lascia senza fiato il fatto che, proprio in queste condizioni, il santo di Assisi abbia composto il Cantico delle creature o Cantico di Frate Sole (e pensare che i suoi raggi gli provocano così tanto dolore...). Ebbene, proprio questo Francesco, da una celletta fatta di stuoie e infestata dai topi, chiede di scrivere una lode al Signore per tutte le sue creature: il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra, coloro che perdonano e sopportano in pace malattie e dolori e, al culmine dell’elevazione spirituale di questa poesia, il frate giunge a lodare Dio anche per «sora nostra morte corporale».

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.

Beati quelli ke ’l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

Come si fa a lodare quando si sta così male? Come si può ringraziare per qualcosa che non si vede? Come poter percepire interiormente quel bagliore di speranza quando tutt’attorno è buio e dolore? Ce lo chiediamo tutti in questi giorni di terribile sofferenza. Francesco va oltre, sa bene che la verità è quella bellezza lì, cioè quella bellezza che ha visto e sperimentato nei suoi momenti migliori. È nel buio ma pensa alle creature inondate dalla luce del sole, sta per morire ma gioisce di quella vita che fluisce al di fuori di sé e che gli è stata donata gratuitamente. E quanto è bello che la nostra letteratura italiana, che non è altro poi che memoria e trascrizione di ciò che siamo, nasca proprio da una lode che dalle pareti di una buia ed umile cella si eleva al di sopra dei dolori per contemplare e gioire «cum tucte le tue creature»! Oggi, nel nostro forzato distacco dalla natura, dal mondo, dalle nostre faccende e dagli incontri, ripartiamo da qui: da quello sguardo interiore capace di vedere ciò che non c’è, di sentire ciò di cui siamo privati, di gustare ciò che si trova al sicuro nella memoria e di benedire e lodare la nostra storia, proprio come Francesco.

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